Cronaca

SCU: il figlio “d’arte” ed il “marchio” sulla pelle

BRINDISI – Un marchio sulla schiena delle vittime per ricordarsi di non sgarrare. Era così che il clan Lamendola, figlio “d’arte”, della Sacra Corona Unita si faceva valere, con una crudeltà inaudita.

Il blitz nell’operazione antimafia, una delle più significative negli ultimi anni in provincia di Brindisi, effettuato ieri dai carabinieri del NOR della Compagnia di San Vito dei Normanni è stato il primo per il reparto diretto dal Tenente Alberto Bruno e rappresenta, pertanto, un risultato senza precedenti.

L’ala mesagnese della Sacra Corona Unita affiliata a Pasimeni aveva deciso di sottomettere una porzione della provincia di Brindisi per mano della violenza sanguinaria del boss Carlo Cantanna, condannato all’ergastolo al 41bis. Ma che oggi può contare sul nipote, Gianluca Lamendola, figlio di Cosimo Lamendola, il quale ha assunto negli anni una posizione di vertice all’interno del sodalizio.

Le azioni poste in essere da Lamendola costituiscono l’ultima estrema manifestazione di un retaggio mafioso ereditato, senza alcuna presa di distanza critica, ma con un’accettazione di una tradizione familiare concepita come unico modo di agire. A narrare l’evoluzione criminosa di Lamendola è lo storico boss Andrea Romano, oggi collaboratore di giustizia, in alcune sue testimonianze. Risulta da tali dichiarazioni che Giuseppe Prete scrisse una lettera a Romano dolendosi del comportamento disinvolto assunto nel narcotraffico dal Lamendola, che creava conflitto con i loro interessi e pregandolo di intervenire. Romano scrisse a sua volta una missiva a Lamendola avvertendolo che, scarcerato, non poteva pensare di riappropriarsi a suo piacimento del territorio di San Vito che lui ormai aveva occupato con i suoi sodali. Quindi si creò un equilibrio nella coesistenza dei due clan, che presto Lamendola incrinò a causa della sua tendenza ad assumere sempre maggiori spazi di autonomia e comando.

La moltitudine di reati commessi, tutti con modalità significative della padronanza assunta nel tempo di dominio mafioso, sono essi stessi espressione di una caratura criminale imponente, capace di imporsi sui sodali, di farsi ubbidire e di determinare un clima di terrore in relazione alle vittime. A riprova di tali valutazioni è sufficiente rilevare la quantità di estorsioni commesse e la pretesa del cosiddetto ‘punto’, prendendo con la forza cose o somme di denaro a piacimento, nell’esternazione di condotte di inaudita violenza. La sfrontatezza delle modalità attuative di tale violenza, tenuta in pubblico, da parte di p persone, con 1’uso di armi, verso vittime inermi, disarmate e ridotte in uno stato di muto spavento, culminavano nell’ostentazione massima del taglio rituale sulla spalla: un modo per marchiare la persona con un simbolo, sempre identico, che fosse riconoscibile e che, perciò solo, fosse di monito per chi osasse ribellarsi o sottrarsi. Trattasi di simbologia tipica ed esclusiva del clan, di forte impatto emotivo sulle potenziali vittime. Anche per questo le vittime di estorsione, quali imprenditori, commercianti e cittadini privati non hanno mai denunciato alcunché.

Lo scenario che si profila, dunque, è quello di una mafiosità reale, cruda, pronta a tutto, che gestiva il territorio con pugno di ferro, su solide basi familiari, saldamente ancorata all’ordine storico della Sacra Corona Unita, che, nonostante il freno subito dai successi giudiziari, con il clan Lamendola mostra di essere tuttora viva, operativa e pericolosissima. Ma le Forze dell’Ordine stanno lavorando per smantellare l’intero clan.

Tommaso Lamarina

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