LECCE – Ha «vissuto dieci anni di terrore». A “certificarlo” sono stati i giudici della Corte d’Appello. L’uomo già condannato al risarcimento, ora sarà costretto a pagare 50 mila euro alla sua ex moglie. Secondo l’ordinanza interlocutoria della Corte di Cassazione il giudice civile può utilizzare le prove raccolte in quello penale con verdetto definitivo in base al principio «più probabile che non» diventa definitiva, dunque, la condanna inflitta dalla Corte d’Appello di Lecce: la donna, vittima del reato di lesione personale, dovrà essere risarcita.
Investito della domanda di risarcimento del danno da reato, il giudice civile può legittimamente utilizzare le prove raccolte in un giudizio penale definito con sentenza passata in giudicato. Il magistrato in questione, dunque, deve procedere “con pienezza di cognizione così da accertare i fatti materiali all’esito del proprio vaglio critico”.
Per l’avvocato Giovanni D’Agata, presidente dello “Sportello dei Diritti”, il motivo è fondato perché “è escluso l’obbligo di rinnovare l’istruttoria prescritto dalla Corte europea dei diritti umani soltanto nel penale quando si vuole riformare l’assoluzione pronunciata in primo grado secondo la regola di giudizio «al di là di ogni ragionevole dubbio».
Il giudizio risarcitorio civile verte invece sul nesso causale fra la condotta illecita e il danno. Vale, dunque, la diversa regola probatoria del «più probabile che non». E «l’evidente gravità» delle condotte dell’uomo consentono di presumere la «notevolissima sofferenza morale», oltre che fisica, della donna, che in una lite riporta la frattura del setto nasale. Insomma, i «dieci anni di terrore» non sono «frutto dell’inventiva del Tribunale» ma un’«immagine icastica» e dunque essenziale, del «lunghissimo periodo di condotte delittuose» dell’uomo”.