Attualità

Ombre sulla moda, faro sui contratti capestro

SALENTO- Non è il Bangladesh ma non è neppure l’Eden. La situazione dei lavoratori del tessile-abbigliamento-calzaturiero nel Salento non è più quella di 15-20 anni fa, con poche regole dentro laboratori insicuri o direttamente in casa. Tuttavia, alcune sacche di anomalie restano ancora. Nel basso Salento, soprattutto, con qualche caso anche nel nord Leccese. E il cuore della questione non è nel lavoro nero: è nei contratti capestro, sbilanciati e mortificanti per i lavoratori, fino ad arrivare a paghe da 5-6 euro l’ora, a volte anche con l’avallo dei sindacati. “Non noi – dice Franco Giancane, segretario generale Filctem Cgil Lecce – ma alcuni sindacati autonomi hanno sottoscritto contratti di secondo livello in deroga al contratto collettivo svantaggiosi per gli operai”.

L’inchiesta del New York Times sulle lavoratrici dell’alta moda in Puglia, reportage che ha raccontato realtà ben note al territorio smuovendo i vertici del settore, porta a mettere i puntini sulle i: “Oggi – spiega Giancane – non abbiamo notizie di lavoro a domicilio, come era diffuso fino ad una quindicina di anni fa per la cucitura delle tomaie. Ci sono, invece, aziende che lavorano a domicilio, ma applicano contratti regolari. Il problema è un altro ed è nell’ultima parte della filiera, che spesso sfugge ai grandi marchi, i quali, però, se avvisati, solitamente intervengono per tempo”.

Funziona spesso così: le grandi aziende affidano la produzione dei capi ai faconisti, i quali “subappaltano” il lavoro a contoterzisti, di solito piccole e medie aziende del territorio. Sono queste ultime ad applicare, non di rado, contratti in deroga.

In un laboratorio della zona di Ugento, ad esempio, uno di questi contratti è in scadenza a fine anno: prevede che i dipendenti, che confezionano abiti per grandi marchi, siano inquadrati per cinque anni al primo livello e che a loro non possa essere versato un salario inferiore del 60 per cento ai minimi tabellari. Una clausola che, in sostanza, si traduce esattamente nel riconoscimento di una busta paga pari al 60 per cento di quella normale. “Facendo due conti – spiega Giancane – così i dipendenti riescono a prendere al massimo 750-800 euro, pari a 5-6 euro all’ora”.  Un’altra azienda che produce tomaie per scarpe nel basso Salento applica un contratto il cui minimo tabellare presenta uno scarto di 300 euro in meno rispetto al contratto nazionale di categoria. Anche questo con l’avallo di un sindacato autonomo.

È in queste aziende che la Cgil ha difficoltà ad entrare, ad esempio: i lavoratori non denunciano, ma al massimo di presentano nelle camere del lavoro per mostrare la busta paga, per capire perché non viene versato l’elemento di garanzia retributiva, perché se si ammalano per loro è più problematico. “Così si fa concorrenza sleale alle aziende che stanno correttamente sul mercato – conclude Giancane- e che sono la maggioranza, ad esempio nel polo di Nardò o Casarano”.

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