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Pastore ucciso “per gioco” con il fucile: datore condannato a 30 anni

LECCE – Trent’anni anni di carcere, interdizione perpetua dai pubblici uffici, pagamento delle spese processuali e 50mila euro di risarcimento danni per ciascuna delle parti civili.

Si conclude così, con la lettura di questa sentenza nell’aula bunker del carcere di Lecce, il processo a carico del 37enne Giuseppe Roi, ritenuto responsabile dell’omicidio del dipendente Qamil Hirai, che all’epoca dei fatti (era il 6 aprile del 2014) aveva 24 anni e lavorava nella masseria di Roi a Porto Cesareo, lì dove era addetto alla cura del gregge. Quella mattina un colpo di fucile lo ha raggiunto dritto alla fronte, provocandone il decesso istantaneo. Ad impugnare l’arma, a pochi metri di distanza, era il suo titolare nonchĂ© amico Giuseppe Roi. Difeso dall’avvocato Francesca Conte, protagonista in mattinata dell’arriga difensiva, il 37enne riferì successivamente di averlo colpito per errore, mentre esplodeva colpi a vuoto. Abitudine che – a dire dei testimoni chiamati in causa nel processo, inclusi i familiari della vittima – aveva da tempo generato in Qamil paura e diffidenza, tanto da incrinare il rapporto di amicizia tra i due.

Al margine dell’arringa, l’avvocato Conte ha chiesto l’assoluzione per il suo assistito, contestando la volontarietĂ  dell’omicidio. “Non ci sono prove nĂ© estremi validi – ha detto – per ipotizzare che il colpo sia stato intenzionalmente direzionato verso la vittima, con la quale Roi intratteneva un rapporto d’amicizia leale – ha rimarcato – testimoniato dalla disponibilitĂ  di Roi ad andare incontro a diverse necessitĂ  di Qamil, anche legate alla salute. Senza considerare poi i rapporti idilliaci tra la famiglia della vittima e lo stesso Roi, accolto anche in casa loro in Albania”.

Nella precedente udienza il pubblico Ministero Carmen Ruggiero, sempre dinnanzi ai giudici della Corte D’Assise presieduta da Pietro Baffa, aveva invocato 25 anni di carcere, ipotizzando il reato di omicidio volontario con dolo eventuale. “Quando Roi ha sparato – ha detto il Pubblico Ministero – era consapevole di poter colpire Qamil ed era disposto a pagare quel prezzo, perchĂ© la veritĂ  è che per il suo datore la vita di Qamil non valeva nulla”.

Il cerchio delle indagini condotte dai Carabinieri, lo ricordiamo, si strinse nel novembre dello stesso anno, grazie a rilievi e testimonianze. Decisiva anche la versione dei fatti fornita da Angelo Roi, padre di Giuseppe, considerata un tentativo di depistaggio: l’uomo riferì agli inquirenti di un fantomatico furto di 20 pecore subito qualche giorno prima della tragedia. Episodio rivelatosi poi inesistente e bollato come tentativo di indirizzare i militari verso tutt’altra pista.

E di fatto la storia di Qamil, che dall’Albania aveva raggiunto l’Italia in cerca di lavoro, raccontava tutt’altro: le indagini hanno appurato che il giovane non avesse alcun tipo di rapporto con ambienti criminali, nessun dissidio, nessuna relazione sentimentale. Giuseppe Roi, al di lĂ  del rapporto di lavoro, era il suo unico amico, almeno fino a quando il vizio delle armi non aveva spinto la vittima a prendere le distanze dal suo datore. “Prima o poi così facendo mi ammazza” aveva riferito Qamil alla sorella. Qualche mese dopo, quello sfogo si è poi rivelato premonitore.

Difesi dall’avvocato Ladislao Massari, i famigliari di Qamil presenti in aula, al margine della sentenza si sono stretti in un lungo e commosso abbraccio.

ERICA FIORE

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