LECCE – Questa cartina, che vede la provincia di Lecce colorata di verde scuro, contiene una buona notizia: il numero delle aziende agricole è progressivamente cresciuto, con la percentuale più alta d’Italia, dopo la provincia di Nuoro, in Sardegna.
Gli addetti sono 10.221, numero che si triplica con le assunzioni ‘stagionali’, e sono 9.335 le imprese attive al 30 giugno 2021. Rappresentano il 14,2 per cento del totale, dato che però conferma anche il rovescio della medaglia: il Leccese, nonostante la sua estensione e le sue potenzialità, è ancora il territorio pugliese in cui questo settore ha il peso più basso nell’economia locale.
Qui l’agricoltura paga lo scotto di un suo problema strutturale: tante, troppe le imprese di piccole dimensioni, eccessivamente elevata la frammentazione aziendale. E ciò significa anche incapacità, finora, di stare insieme, cooperare, condividere strumenti e obiettivi. Ma significa anche altro: lasciare buona parte del territorio all’abbandono, al sottoutilizzo o ad un utilizzo distorto. Senza “presidio” e senza valorizzazione anche in termini economici, le campagne diventano – come sono diventate – facile preda di cemento, progetti di energie rinnovabili selvagge, incendi e incuria. La superficie agricola totale e utilizzata, d’altronde, risulta
inferiore alla media regionale e a quella nazionale.
È la fotografia che emerge dal report “Agricoltura in provincia di Lecce- Prospettive e nuove opportunità di sviluppo”, elaborato dall’analista Davide Stasi per Cia e Apol. E’ stato presentato in mattinata nella cantina sociale di Copertino, in occasione del rinnovo delle cariche in seno alla Cia, che ha visto riconfermare alla sua presidenza Benedetto Accogli.
Imprese spesso longeve quelle del settore agricolo, ben 231 attive già da cinquant’anni. Dal report emerge anche che le coltivazioni più diffuse restano ulivi e viti. Tra i seminativi, invece, i cereali e le ortive. Nel corso dell’ultimo decennio, qualcosa è cambiata: le superfici agricole non sono sensibilmente diminuite, ma sono cambiate le modalità di impiego, per cui, mentre, da un lato, si sono contratte le superfici a seminativi, dall’altro sono aumentate quelle destinate a prati permanenti e alle coltivazioni legnose. È un segno dei tempi: si contraggono le attività che richiedono una maggiore presenza dell’agricoltore, a vantaggio di colture estensive che, per loro natura, necessitano di minore forza lavoro. Alla base di ciò almeno tre fattori: modernizzazione del settore; concorrenza di prezzo di prodotti esteri; cambiamenti climatici. Ovviamente, anche il disseccamento degli olivi ha avuto i suoi gravosi impatti.
“L’agricoltura pugliese e salentina, in particolare, a differenza di quella nazionale, attraversa una fase di difficile transizione”, è il succo del rapporto. Tante le cause e chiara la prospettiva: ricambio generazionale, innovazione tecnologica, meno burocrazia, più competenze. E, come detto, maggiore cooperazione e aggregazione tra le realtà, non solo produttive ma anche tra aziende e consumatori, coordinando le filiere, unico modo per limitare le asimmetrie del mercato.