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Ex Ilva, è sciopero. Sindacati: “Impianti al minimo”. Anche Jindal si sfila

TARANTO- È il giorno delle braccia incrociate, dalle 7 e per 24 ore, nello stabilimento di Taranto e negli altri siti italiani del gruppo ArcelorMittal, dopo l’annuncio di voler recedere dal contratto con il quale, da un anno, è subentrato nella gestione dell’ex Ilva. Ma è anche il giorno in cui la situazione diventa, per alcuni aspetti, più chiara: il gruppo indiano Jindal, che era arrivato secondo nella proposta di acquisizione del polo siderurgico, smentisce “con forza” le indiscrezioni di stampa per cui «Jindal Steel & Power potrebbe rinnovare il suo interesse per l’acciaieria di Taranto», come si legge in un tweet postato sul canale Twitter del gruppo, che ha invece rilevato gli asset della ex Lucchini di Piombino e intende rafforzare quello stabilimento.

Le acque restano agitate. ArcelorMittal per il momento non fa passi indietro davanti alla richiesta del governo di 48 ore per ripensarci perché le condizioni poste sono inaccettabili. La stanchezza tra i lavoratori si percepisce: l’adesione allo sciopero indetto da Fim, Fiom e Uilm è stata meno massiccia del previsto, mentre sono stati tanti i lavoratori dell’appalto in presidio nei pressi della portineria del polo tarantino, perché nell’immediato sono loro quelli più a rischio.

Stando a quanto reso noto dai sindacati, d’altronde, già ora “l’azienda sta portando gli impianti al minimo della capacità di marcia” e, “in queste condizioni”, “entro fine mese ci sarà lo stop totale”, avvertono.

Per i metalmeccanici, “la multinazionale ha posto delle condizioni provocatorie e inaccettabili e le più gravi riguardano la modifica del Piano ambientale, il ridimensionamento produttivo a quattro milioni di tonnellate e la richiesta di licenziamento di 5mila lavoratori, oltre alla messa in discussione del ritorno a lavoro dei 2mila attualmente in Amministrazione straordinaria”.

Si chiede all’azienda il ritiro della procedura di retrocessione e al governo di toglierle ogni alibi, ripristinando tutte le condizioni in cui si è firmato l’accordo di un anno fa. Il riferimento è al ripristino dello scudo penale che concede l’immunità ai gestori, venuto meno il 3 novembre con la mancata conversione in legge del decreto che lo prevedeva. Ma è anche, anzi soprattutto, all’altoforno 2, che, dopo l’incidente mortale dell’operaio Alessandro Morricella nel 2015, è finito al centro dell’intervento della magistratura, che ne ha concesso l’utilizzo sottoposto però a sette prescrizioni, da adempiere entro il prossimo 13 dicembre, pena lo spegnimento di quello ma anche, a cascata, degli altiforni 1 e 4, l’intera area a caldo. Ieri l’ad Lucia Morselli ha incontrato il procuratore capo Carlo Maria Capristo. Sul tavolo c’è la possibilità di un altro anno di facoltà d’uso per completare le prescrizioni imposte dal magistrato: è quanto hanno chiesto a Capistro i commissari straordinari dell’Ilva, nell’altro incontro che si è tenuto poco dopo. Bisognerà verificare, però, se anche a fronte di questo il colosso francoindiano deciderà di restare. Perché la verità è emersa in queste ore, rimarcata dal premier Conte, per quanto già al momento della proposta i commissari straordinari lo avessero messo per iscritto: il piano industriale presentato è insostenibile. E il tentativo della multinazionale, ora, sarebbe quello di scaricare il rischio d’impresa, che resta di chi investe, sullo Stato italiano. E su Taranto in particolare.

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