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Omicidio al bancomat di Lequile, gli imputati chiedono perdono. Il Pm: “è una farsa” e invoca anche l’ergastolo

LECCE – Dopo una lunga requisitoria, il pubblico ministero Alberto Santacatterina invoca le dure condanne, diverse, per Paulin Mecaj – 31 anni di origini albanesi – e Andrea Capone, 28 anni di Lequile. Imputati per l’assassinio del 69enne Giovanni Caramuscio il 16 luglio dello scorso anno davanti al bancomat di Lequile, avrebbero – stando alle indagini e le confessioni postume – ricoperto ruoli diversi. Intenzionati a rapinare l’uomo, intento a prelevare, Mecaj gli avrebbe sparato: per questo per lui è invocato l’ergastolo.  Capone, dopo avergli sottratto il portafogli, sarebbe invece scappato via, sfuggendo al tentativo della vittima di reagire: per lui il Pm ha chiesto 22 anni di carcere.

In mattinata l’udienza conclusiva del processo si è tenuta in aula Bunker a Lecce, davanti ai giudici della Corte d’Assise presieduta da Pietro Baffa. Presenti anche i familiari della vittima, che quel giorno era con la moglie: dall’auto lei ha assistito a tutto.

Dall’apertura del processo, è la prima volta che i due imputati rendono dichiarazioni in aula: entrambi, prendendo la parola, hanno chiesto scusa e invocato il perdono della famiglia di Caramuscio. Così come hanno sostenuto poi di non essere pienamente lucidi il giorno dell’assassinio, “eravamo bevuti e drogati” ha detto testualmente Capone. Hanno poi rimarcato di non essere stati mai intenzionati ad uccidere: sarebbe stata la reazione della vittima a destabilizzare Mecaj, munito di pistola scacciacani modificata, che il grilletto lo avrebbe premuto ben tre volte come emerso dai rilievi: un colpo è rimasto incastrato e, dunque, inesploso. “È successa una cosa che non doveva succedere” hanno ripetuto.

Il Giudice Baffa, però, ribattendo alle ricostruzioni di entrambi, ha evidenziato che a sconfessarle, in parte, sono le stesse immagini delle telecamere di videosorveglianza che hanno immortalato tutto.

Anche il Pm Santacatterina, nella requisitoria, partendo proprio da questo è arrivato dritto al punto: “il pentimento e la richiesta di perdono sono una farsa” ha detto. Teoria che ha poi motivato punto per punto. Capone ha sempre detto di non sapere che Mecaj avesse con sé una pistola, eppure assiste senza colpo ferire a quando la punta contro Caramuscio. E ancora: nelle riprese delle telecamere – finite agli atti – si vede Mecaj chinarsi sul corpo ormai esanime della vittima, finito dietro un’auto. Non si sa cosa abbia fatto, perchè non si vede, certo è che la ferita allo zigomo analizzata dal medico legale Tortorella risulta compatibile con un colpo inferto col calcio della pistola. Per il Pm emblema di accanimento. E poi ben tre i colpi esplosi, decisamente troppi per chi sostiene di non aver mai voluto uccidere.

A ciò si aggiungano i colloqui di entrambi con i rispettivi familiari intercettati in carcere, emblema – per il Pm – di un unico interesse: tornare in libertà quanto prima. “Nessun parola di pietà o rammarico per quanto commesso – ha incalzato Santacatterina – tanto che Mecaj chiede alla madre di procurarsi dall’Albania un certificato che lo definisca pazzo e le spiega poi che la lettera di scuse (che ha consegnato alla Corte lo scorso aprile) lo aiuterà ad allegerire la sua posizione: “tanto me la impostano gli avvocati” precisa.

Per il Pm, dunque, non c’è alcun dubbio: “Gli imputati – dice alla Corte – sono venuti qui oggi per prendervi in giro”.

Nella prossima udienza, fissata per il 6 dicembre, sarà la volta degli avvocati difensori Stefano Prontera, Raffaele De Carlo e Maria Cristina Brindisino.

ERICA FIORE

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