Cronaca

Crac Omfesa, per De Leo ipotizzata la bancarotta fraudolenta

TREPUZZI- L’Omfesa, storica azienda di Trepuzzi, non sarebbe morta per crisi di commesse e mercato. È morta perché i soldi che servivano per consentirle di vivere, almeno 1.147.098 euro, sono passati dalle casse della società alle tasche del presidente del cda, poi direttore generale, Ennio De Leo: è la tesi della Procura, che accusa il professionista leccese di bancarotta fraudolenta aggravata (art 216.1 della legge fallimentare: per aver distratto, occultato, dissimulato, distrutto o dissipato in tutto o in parte i beni ovvero, allo scopo di recare pregiudizio ai creditori, ha esposto o riconosciuto passivita’ inesistenti).

Il suo non è l’unico nome a comparire nell’avviso di conclusione indagini, a firma del pm Giovanna Cannarile. Ci sono anche quelli del figlio Gianluca, in qualità di rapresentante legale della società Parfe srl, e di Giuseppe Pacchioni, imprenditore di Mantova, successore di Gianluca De Leo alla guida della Parfe. Pacchioni, difeso dagli avvocati Giuseppe Corleto e e Angelo Giarda, è della stessa famiglia che, otto mesi prima del fallimento, ha svenduto Omfesa a Ennio De Leo. Tutti e tre sono accusati, in concorso tra loro, sempre di bancarotta fraudolenta aggravata (art. 216.3: durante la procedura fallimentare, avrebbero commesso qualcuno dei fatti preveduti dal n. 1 del comma o sottratto, distrutto o falsificato i libri o le altre scritture contabili).

La società, un tempo gioiellino che si occupava di costruzione, riparazione e manutenzione di veicoli ferroviari, è stata dichiarata fallita il 25 marzo 2013, lasciando senza lavoro decine di operai.

Stando a quanto ricostruisce la Procura, quel fallimento è figlio di una “artificiosa indicazione, in sede di redazione di bilancio, per gli anni dal 2006 al 2011, di dati contabili non corrispondenti al vero”. In sostanza, i conti sarebbero stati gonfiati, “in particolare attraverso la sopravvalutazione delle rimanenze finali di ‘materiali di consumo’ e di ‘merce’”, ma anche attraverso “la sovrastima dei componenti positivi di reddito attraverso la fittizia patrimonializzazione di costi per ‘costruzioni interne’ e dei costi per manutenzioni straordinarie e l’omessa indicazioni di elementi positivi nella dichiaraione irap del 2006”. Strategie contabili, insomma, tramite le quali sarebbe stata alterata “in modo sensibile” la rappresentazione della situazione economico patrimoniale della società: in questo modo, quindi, secondo le accuse, si è potuto chiudere ogni anno con utili invece che con perdite. E questo sarebbe servito per legittimare “compensi straordinari” a Ennio De Leo, in quanto presidente del cda, per 1.147.098 euro. Quei soldi, di conseguenza, sarebbero stati distratti dalla Omfesa in pregiudizio anche dei creditori e il danno patrimoniale cagionato sarebbe stato di “rilevante entità”.

Non è tutto: sempre stando a quanto riportato nell’avviso di conclusione indagini, il danno agli altri creditori Omfesa sarebbe stato aggravato da un’altra procedura: la Parfe avrebbe acquistato debiti di Omfesa presso società creditrici per quasi 1,3 milioni di euro. Non un atto di benevolenza, per il pm: i tre indagati sono accusati di aver ceduto come contropartita alla Parfe un terreno di proprietà di Omfesa, adiacente allo stabilimento, per un valore di 1.080.000 euro, favorendo così l’azienda del figlio di De Leo, passata poi ai Pacchioni, e lasciando a bocca asciutta altri creditori.

Se le cose siano andate davvero così sarà un eventuale processo a stabilirlo, sempre se il pm chiederà il rinvio a giudizio e se il gip dovesse disporlo.

Ma che ci fossero delle anomalie dietro la vicenda Omfesa lo aveva rivelato già L’Indiano, la trasmissione d’inchiesta di Telerama, nel maggio 2013, a due mesi dal fallimento, dimostrando che Omfesa era stata svenduta per appena 1.750 euro dai Pacchioni a De Leo e svelando le carte fino a quel momento sconosciute e poi acquisite dalla Guardia di Finanza, nell’ambito dell’inchiesta nata dopo le denunce degli operai. Spulciando una grande mole di documenti, L’Indiano aveva anche rivelato che giusto qualche giorno prima della svendita, nonostante debiti per quasi 17 milioni di euro, il bilancio era stato chiuso in attivo e ciononostante i Pacchioni avevano deciso praticamente di “regalare” l’intero complesso aziendale (cessione di quote che ammontano sulla carta a oltre 2,3 milioni di euro; capannoni, macchinari, beni per 9 milioni di euro; crediti da riscuotere per 5,5 milioni di euro; rimanenze da vendere per 8 milioni).

 

t.c.

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