Cronaca

Taranto, i fondi per occupazione femminile usati per finanziare famiglie del clan

TARANTO- I fondi pubblici per incentivare l’occupazione femminile usati anche per finanziare famiglie malavitose, rientranti nella sfera del clan D’Oronzo-De Vitis di Taranto. È il retroscena più inquietante dell’operazione “Quote rosa” relativa alla presunta maxitruffa scoperta nel capoluogo ionico dal Nucleo di Polizia Economico Finanziaria della Guardia di Finanza: l’assunzione delle lavoratrici è rimasta solo sulla carta, ma ben 17 imprese di comodo hanno già intascato 1 milione e 271 mila euro. Puntavano ad ottenere, nel complesso, 3 milioni e 260 mila euro. Nei guai sono finiti anche due Ispettori della Regione Puglia, incaricati di svolgere verifiche presso le ditte e ora indagati per i reati di falsità ideologica e materiale commessa dal pubblico ufficiale in atto pubblico.

Un’ordinanza di custodia cautelare, firmata dal gip Giuseppe Tommasino su richiesta del pm Daniela Putignano, è stata eseguita nelle scorse ore a carico di due persone, entrambi residenti a Taranto: in carcere è finito M.S., di 34 anni, mentre ai domiciliari L.L., di 52 anni. Insieme ad altre tre persone, sono accusati di associazione per delinquere finalizzata alla truffa aggravata per il conseguimento di erogazioni pubbliche e falsità materiale commessa dal privato in atto pubblico. Altre 17 persone risultano indagate per truffa, malversazione a danno dello Stato e ricettazione. A carico dei 22 indagati è stato anche disposto il sequestro di beni e conti correnti per un totale di 1 milione e 271 mila euro, come detto l’importo già intascato.

Stando all’impianto accusatorio, le 17 imprese, tutte comunque riconducibili alle stesse persone, sarebbero state costituite solo per poter accedere ai fondi europei cofinanziati dallo Stato e dalla Regione Puglia. Nei loro appetiti sono finiti i piani di intervento tesi a favorire l’assunzione a tempo indeterminato di manodopera femminile residente in Puglia: a condizione che i rapporti di lavoro durino almeno 36 mesi, prevedono che si possa finanziare sino ad un massimo del 50 per cento del costo salariale per i dodici mesi successivi all’assunzione e comunque per una somma non superiore a 14 mila euro per ogni unità stabilmente assunta.

Quelle assunzioni, però, erano solo sulla carta: per la gran parte le imprese non sono risultate operative; le buste paga sarebbero risultate false così come le attestazioni per prestazioni di lavoro di fatto mai eseguite. Non solo, sarebbe stata simulata anche la stipula di polizze fideiussorie, falsificando la firma di procuratori di due agenzie di assicurazione con sede a Lecce e a Bucarest (Romania) e contraffacendo l’impronta del sigillo notarile che ne sanciva la regolarità.

Ma è il legame con la mala tarantina a preoccupare di più: le indagini hanno appurato che due donne, con questo sistema, percepivano illecitamente i contributi per poi utilizzarli a fini personali. Una di loro è ai domiciliari. Entrambe sono mogli di uomini detenuti in carcere, a seguito di condanna, per reati, tra gli altri, di associazione a delinquere di stampo mafioso.

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