LECCE- Non risponde alle domande del giudice e si trincera in quel silenzio ha innescato la tragedia e ha dato il via all’inchiesta e poi al processo per infanticidio e occultamento di cadavere la ragazza, all’epoca dei fatti minorenne, che il 9 febbraio del 2017 partorì un feto morto in completa solitudine, nella sua casa di Squinzano, e lo chiuse in un armadio, all’interno di una borsa. È comparsa in aula, in Corte d’Assise, dove il processo si sta tenendo davanti al giudice Sansonetti, ma non ha voluto parlare. E’ lei la chiave di quanto accaduto, dal momento che sul banco degli imputati la sorella di 26 anni e il suo compagno 46enne, difesi dall’avvocato Maurizio Scardia, ritenuti complici di quella morte. A loro la ragazza, per la quale è in corso un procedimento parallelo presso il tribunale dei minori, era affidata.
Quella notte furono i carabinieri a trovare il corpicino del neonato, sollecitati dai medici dell’ospedale. Una forte emorragia l’aveva costretta al ricovero e lì i sanitari si erano resi conto che che la ragazza aveva partorito da poco. Secondo i consulenti ascoltati nel corso delle varie udienze il bimbo era già morto al momento della nascita a causa del cordone ombelicale attorcigliato attorno al collo, ma se la gravidanza fosse stata assistita a dovere con ogni probabilità si sarebbe salvato. I due imputati però si difendono: mai la ragazza aveva parlato di gravidanza con loro e tutte le volte che si era sentita male, aveva rifiutato qualsiasi ricovero. Loro quindi non potevano sapere.