Cronaca

Rosario Padovano in aula bunker: “Ho ammazzato Nino, perchè voleva uccidere me e i miei”

LECCE   “Amavo Nino. L’ho ucciso perchè altrimenti lui avrebbe fatto fuori me e i miei genitori”. Per oltre 6 ore è andato avanti, nell’aula bunker del carcere di Borgo San Nicola, l’ascolto di Rosario Padovano, mandante reo confesso del”omicidio del fratello Salvatore Padovano, alias ‘Nino Bomba’.

Un delitto che sarebbe stato organizzato solo da lui e dal killer reo confesso e collaboratore di giustizia Carmelo Mendolia.

L’unico a sapere e a non aver fatto nulla per impedire che accadesse, secondo quanto sostenuto dal presunto boss, sarebbe stato il Procuratore Cataldo Motta.

Gli altri imputati nel processo sarebbero stati ignari di quanto stava per succedere. In un colpo solo, Padovano ha cercato di scagionarli tutti.

Ha confessato per la prima volta l’omicidio di Nenè Greco, consumato il 13 agosto del ’90, per presunte questioni legate al traffico della droga.

Secondo l’accusa, infatti, Greco sarebbe stato assassinato perchè aveva iniziato a spacciare da cane sciolto nel territorio gallipolino. “Nessuna droga – ha detto Padovano – Nino voleva farlo fuori per questioni personali e chiese a me di organizzare l’omicidio”. Ad ucciderlo sono stati Carmelo Mendolia e Antonio Perrone (che però dai primi accertamenti sembrerebbe fosse in carcere al momento dell’omicidio).

L’imputato numero uno nel processo ha fornito una versione tutta nuova dei fatti, mai emersa fino a questo momento. Ha parlato a lungo dell’omicidio del fratello. A determinare gli screzi tra i due, sarebbe stato l’odio viscerale che all’epoca Salvatore Padovano covava nei confronti dei genitori. Erano stati loro a comunicargli, mentre era in carcere, l’adulterio della moglie, Anna Reali.

Una cosa che Nino Bomba non avrebbe mai accettato. “Una donna che tradisce deve essere punita, deve essere uccisa e lui non avrebbe mai voluto farlo”. Per questo si era convinto che fossero stati i nostri genitori ad organizzare tutto per mettere in cattiva luce, ai suoi occhi, la sua donna. “Aveva intenzione di ammazzarli. Io lo sapevo. Per questo decisi di rivolgermi ai Carabinieri di Gallipoli prima e alla Direzione Nazionale Antimafia, poi”.

Padovano ha spiegato che avrebbe chiesto aiuto alle forze dell’ordine, perchè mai sarebbe voluto arrivare a ciò che poi si è verificato. A metterlo in contatto con i militari dell’Arma prima, e con la DNA poi, sarebbe stato l’allora suo legale, Flavio Fasano.

“Tra noi c’era un rapporto confidenziale. E’ stato il mio Avvocato tra il 2005 e il 2009”. Vedendo però che nessuno aveva intenzione di intervenire, avrebbe deciso di fare a modo suo. “Il diavolo ci mise la coda – ha dichiarato Padovano – quando nell’estate del 2009 venne a fare le vacanze a Gallipoli, Mendolia. Quando lo vidi decisi che era il momento di agire”.

Il resto è cronaca nota. Nessun altro lo avrebbe aiutato. L’unico altro responsabile, secondo Padovano sarebbe stato proprio Motta. “Davanti a questo Tribunale rispondo io. Davanti a quello divino risponderà anche lui di ciò che è successo”.

Le immagini tipicamente cattoliche sono state rievocate continuamente nel corso del lungo ascolto: “Con l’omicidio di Nino son passato da vittima a carnefice, da Abele e Caino”. E poi ancora. “I miei nipoti? Anime di Dio. Mai avrei voluto fargli del male. Li amo, anche se mi sono guadagnato il loro odio”.

Avrebbe però voluto uccidere la cognata Anna Reali. Intenzione mai realizzata. Padovano ha anche negato il presunto progetto di assassinare il Sen. Vincenzo Barba.Era un cancro di Gallipoli perchè aveva molti soldi e non li investiva nella città, ma non ho mai pensato di farlo fuori”. Infine, ha negato di essere un boss. Dopo il mio ritorno a Gallipoli non ho cercato di ricreare alcuna organizzazione mafiosa.

 

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