Redazionali

Quelle missioni, che non possiamo più permetterci

Sarebbe facile fare retorica sulla morte (l’ennesima) di Manuele Braj in Afghanistan. Gli elementi ci sono tutti: un giovane carabiniere figlio del sud partito dal Salento, le cui spoglie sono state riportate a casa tra le bandiere, «legate strette perché sembrassero intere» come recita una vecchia canzone.

Manuele certamente era partito credendo nella «missione di pace» a cui era stato destinato; altrettanto certamente era partito con la speranza  di mettere da parte per il suo bambino appena nato gli onorari (per quanto ridimensionati dalle ultime regole d’ingaggio), che spettano a chi partecipa alle missioni internazionali.

Ma sarebbe troppo facile e troppo ovvio, nient’altro che un’altra voce ad ingrassare il coro di queste ore: presidenti e sindaci, deputati e senatori, consiglieri ed assessori, politici e opinionisti di ogni forma e colore tutti intenti a piangere l’eroe perduto e il contributo dell’Italia alla causa della pace.

Ciò che viene da chiedersi in queste ore, invece, è il perché: nel dicembre 2001, quando l’Onu deliberò la missione Isaf (http://it.wikipedia.org/wiki/International_Security_Assistance_Force) gli obiettivi sembravano chiari. Le torri gemelle fumavano ancora, Osama Bin Laden era il latitante più pericoloso al mondo, protetto dai talebani che dominavano l’Afghanistan. A distanza di dieci anni, Bin Laden è morto in Pakistan, dove al-Qaida sembra aver spostato il proprio centro organizzativo e decisionale, mentre a Kabul governa il ‘democraticoKarzai. Eppure oltre 50mila militari sono ancora oggi di stanza in Afghanistan. Tra di essi, Manuele Braj.

Si potrebbe discutere a lungo sulla possibilità di esportare la democrazia come fosse un carico di patate, sulla prospettiva di coltivare la pace in alcune zone del mondo militarizzandone altre, sull’ipocrisia dell’Occidente che trova intollerabile il consenso ai talebani in Afghanistan, ma non batte ciglio davanti all’occupazione del Tibet da parte della Cina o al saccheggio del Darfur da parte del Sudan.

Ma c’è anche un altro modo di vedere la questione, più cinico e forse più concreto. Quanto costano all’Italia le «missioni di pace»? E cosa ci guadagna il nostro paese? Nella stretta soffocante della crisi, ha senso coltivare una presenza così massiccia nei conflitti mondiali? Dieci missioni internazionali, quante ne conta il sito ufficiale dell’Esercito Italiano (http://www.esercito.difesa.it/Attivita/Pagine/Tuttelemissioni.aspx?status=In%20atto) non saranno magari la conseguenza di una malintesa ‘grandeur’ che oggi non possiamo più permetterci? Il costo, in termini economici e in termini di vite umane, sembra davvero troppo alto. Il governo Monti, sempre a caccia di spese ormai divenute insostenibili per le nostre casse, si accomodi: la spending review, oltre alla spesa sociale e alle attività produttive, metta anche il naso nelle cosiddette «missioni di pace». E non dimentichi di metterci anche le forbici.

di Danilo Lupo

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