Cronaca

Nel Salento confiscate tre aziende degli eredi Riina. L’avvocato: “Anomalia”

LECCE – “Dopo il sequestro, era immaginabile. Andremo avanti, certi di dimostrare che queste aziende nulla avessero a che fare con gli affari di Totò Riina“. È la replica, rilasciata a TeleRama, dal legale difensore di Maria Concetta Riina e Tony Ciavarello, figlia e genero dell’ormai defunto Capo di Cosa nostra. L’avvocato Tiziana Dell’Anna del foro leccese, da noi contattata, punta tutto sul ricorso in appello, all’indomani della confisca dei beni degli eredi del boss, di cui tre aziende salentine (due a San Pancrazio e una a Lecce).

Si tratta, nel dettaglio, del 95% del capitale sociale relativo alla partecipazione di Antonino Ciavarello, genero del “capo dei capi”, nella ditta di riparazioni meccaniche a San Pancrazio Salentino (tradotto in soldoni 5mila e 700 euro); del 100% del capitale sociale della rivendita di autoricambi sempre di Ciavarello a San Pancrazio (pari a 500 euro) e del 100% della Ac Service srl di Lecce, anche questa del marito di Concetta Riina (pari a 5 mila euro).

Il decreto di confisca è stato eseguito dai carabinieri del Ros e della compagnia carabinieri di Corleone. Il provvedimento è stato emesso nei confronti di Antonina Bagarella, Giuseppe Salvatore Riina, Maria Concetta Riina (residente appunto a San Pancrazio dal 2012) Lucia Riina e Giovanni Riina. I beni confiscati, già sequestrati il 19 luglio 2017, hanno un valore complessivo di un milione e mezzo di euro e tra questi vi sono 17 rapporti bancari e l’abitazione di Mazara del Vallo intestata a Vito Caladrino.

Dopo 24 anni non si può procedere ad una confisca – spiega ancora l’avvocato di Ciavarello – siamo certi di dimostrare che queste attività nulla abbiano a che vedere con il riciclaggio di denaro sporco. Questo provvedimento, nelle tempistiche, è anomalo, senza considerare che ormai la famiglia è economicamente in difficoltà“.

Gli investigatori sono partiti dai versamenti in contanti di Ciavarello: tra il 2003 e il 2010 ben 136 328 euro. Per i giudici vi era un’ “evidente proporzione (…) tenuto conto che il saldo tra entrate e uscite (delle attività) era in negativo” e non di poco.

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